Intervista a Nadia Peviani

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I modelli maschili toccano da vicino le donne quando queste si trovano a dover faticosamente conciliare tempi e ritmi di lavoro con la vita privata. Cosa ne pensa?
Il tema della conciliazione si presenta per ragioni storiche, per tradizioni consolidate. L’uomo arriva a casa e ha terminato la propria giornata: ha fatto tardi, è molto stanco. La donna arriva a casa, altrettanto stanca, ma deve iniziare il ‘secondo turno’. Forse le nuove generazioni sentono meno queste difficoltà, ma il problema ancora esiste. Io cerco per quanto possibile di fare in modo che gli orari di lavoro vengano vissuti come un segno di responsabilità e non come una dimostrazione di impegno. Non mi aspetto che nessuno si fermi oltre l’orario di lavoro e, a meno che non vi siano emergenze, è proibito rimanere da soli in ufficio oltre l’orario previsto. Abbiamo poi deciso di comune accordo di fare una pausa pranzo più breve, in modo da accumulare ogni giorno mezz’ora e, il venerdì, uscire dall’ufficio alle 15,00, per avere un fine settimana più lungo.

La mia impressione, condivisa con molte donne che ho intervistato, è che le donne possono ‘dettare delle condizioni’, avere cioè un potere contrattuale, solo se portano risultati…
È abbastanza vero. Nella mia esperienza ho vissuto un percorso iniziale che è costato molti sacrifici e rinunce: ho dovuto dimostrare di saper portare risultati e questo è diventato parte della mia attitudine alla professione. Pretendo molto da me stessa, ma anche dai miei collaboratori: la maggior parte delle mie collaboratrici sono donne e sono brave, tenaci, intelligenti. Hanno senso di responsabilità e sono affidabili. Ma se si vogliono ‘dettare condizioni’, prima bisogna guadagnarsi la stima e la fiducia del cliente.

Si parla di ‘fattore D’, ovvero dell’importanza di immettere più donne nel circuito del lavoro perché a fronte di 100 donne impiegate si creano 15 posti in più nel settore dei servizi. Un circolo virtuoso insomma, che potrebbe essere un primo passo per risanare l’economia. Naturalmente, tutto questo deve essere supportato a livello governativo, come accade nei Paesi del nord Europa, o in Francia. Il tema della conciliazione è forte. Cosa ne pensa?
Il tema è certamente attuale e mi rendo conto che anche la dimensione dell’azienda è un fattore che entra in gioco in modo preponderante. Le grandi realtà hanno la possibilità di organizzare dei servizi a supporto per i dipendenti che le piccole imprese faticano a realizzare. Ma la conciliazione della vita personale con quella lavorativa dovrebbe essere un diritto generale che riguarda tutti, non solo chi ha figli a cui badare. Per fare passi in avanti con il tema della conciliazione, credo si debba innanzitutto cominciare a pensare al lavoro in modo imprenditoriale, anche quando si lavora in azienda. È necessario abbandonare l’idea che la flessibilità sia sinonimo di precariato. La flessibilità nel lavoro significa responsabilità, attitudine, imprenditorialità e quindi capacità di conciliare tutti gli aspetti della propria vita. Tutto ciò aiuta a raggiungere risultati professionali e personali. Sarebbe bello poter creare questo circolo virtuoso; ma se il lavoro è visto come un peso e se i modelli aziendali restano ingessati da regole, tutto questo resta un’utopia.

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