Il bello della fatica

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Mi sto chiedendo che significato abbia, oggi, parlare di lavoro. Il nostro Governo ha varato misure che non riesco a condividere: non sono un’esperta di conti pubblici, ma non serve un master in economia per capire che se dispensi denaro al popolo aumentando il deficit, il conto da pagare comunque al popolo torna. Più precisamente alle persone che un lavoro ce l’hanno, e che si vedono progressivamente impoverire il tenore di vita. Mai più azzeccato fu il paradosso della rana bollita. Per quelli che invece allegramente se ne fregano delle regole arriva la pace fiscale, un eufemismo indecente, che fa sentire sempre più fessi i cittadini che rispettano le regole, perché non hanno la possibilità di fare altrimenti o perché, guarda caso, sono cittadini onesti.

Ma torniamo al lavoro. Gli incentivi per sottrarre alla povertà un certo numero di italiani allontanano dalle persone l’idea che dignità e autorealizzazione si costruiscano attraverso il lavoro. Mentre il reddito di cittadinanza ha proprio l’effetto paradossale di allontanare le persone dal luogo che consente la costruzione di dignità. La domanda è: si può vivere senza lavorare? Probabilmente in un mondo perfetto esisterebbe un sistema di formazione vocazionale in grado di assecondare i talenti di ognuno, risolvendo la questione dell’autorealizzione, che non tutti hanno la fortuna di raggiungere con il lavoro. Da qui la distinzione tra lavoro retribuito, che normalmente si fa con fatica, dal lavoro che invece facciamo per passione, un hobby, per il quale magari fatichiamo altrettanto senza percepire alcun compenso. Nel nostro mondo, che perfetto non è, dovremmo almeno far sì che il lavoro sia il più possibile qualificato, aderente ai percorsi di formazione, meritocratico.

Ci muoviamo in un terreno spinoso, e poiché non esistano soluzioni semplici a problemi complessi (e il reddito di cittadinanza è una pericolosissima semplificazione di un problema che andrebbe affrontato da ben altre prospettive), provo ad analizzare la questione partendo da un dato di fatto: la trasformazione del mondo del lavoro. L’intelligenza artificiale renderà inutili molti lavori: dalle cassiere al supermercato ai conducenti di carrelli elevatori al personale addetto a gestire la relazione con la clientela. I chatbot raggiungono livelli di interazione sempre più sofisticata, non avremo più bisogno di un’interfaccia umana per avere risposte a molte domande.

Cosa fare? Accettare la visione dei tecnofobi che preconizzano la fine del lavoro umano, con la conseguente ricerca di fondi per far vivere le persone liberate dal dovere del lavoro con un reddito minimo? Innanzitutto bisogna capire come poter  vivere, dignitosamente, con un reddito minimo – se non procurandosi altro reddito in maniera poco lecita –,  in secondo luogo le manovre che i cittadini onesti dovranno pagare di tasca loro (aumenteranno i tassi d’interesse, cresceranno i nostri impegni finanziari, quando arriverà il nostro turno l’INPS sarà collassata da tempo…) generano una controcultura pericolosissima. Questi provvedimenti sedimentano nelle persone il concetto che esiste un mondo che può prescindere dal lavoro mentre dovremmo accettare che il modo di lavorare sta cambiando e servono nuove competenze e deve essere l’uomo a governare le macchine, non il contrario.

Siamo la seconda manifattura d’Europa, e i nostri governanti, cosa fanno? Invece che investire risorse in formazione, nella riqualificazione dei centri per l’impiego, nel sostegno all’Università ci liberano dal lavoro, avvalorando la narrazione che il lavoro non sia indispensabile per la costruzione di senso dell’essere umano – con buona pace di Primo Levi – ma possa essere svolto da altri, dalle macchine, per esempio.

Quindi, che spazio resta per l’uomo? Accettiamo sommessamente di abbandonare il nostro ruolo di cittadini per diventare tutti utenti di piattaforme? Questo il destino più facile, che viene offerto su un piatto d’argento a un popolo già irreversibilmente anestetizzato dai social network. Un Governo responsabile dovrebbe dare fiducia, non alimentare speranze fintamente edonistiche (peraltro dubito che l’etica epicurea si stata oggetto di approfondimento…) allontanando l’uomo dalle sue responsabilità. E la responsabilità di tutti noi, oggi, è accettare che il mondo del lavoro si sta trasformando e non ci sarà più spazio per il lavoro non qualificato, quello sì sarà svolto dalle macchine. La fatica fisica sarà allontanata dal mondo del lavoro e l’uomo sarà chiamato a faticare intellettualmente: per sviluppare competenze nuove, per aggiornarle, per rimettersi in gioco più volte nel corso della vita. Ma dovrà coltivare il desiderio profondo di apprendere, come abbiamo sottolineato nel corso del nostro incontro Formare e Formarsi che si è tenuto la settimana scorsa a Milano.

Un resoconto a questo link: https://www.runu.it/coltivare-il-piacere-di-apprendere/.

Ma imparare costa fatica e le donne pare abbiano una maggiore propensione a impegnarsi per apprendere cose nuove. Le donne si formano più degli uomini, soprattutto escono con più facilità dai binari della formazione obbligatoria per affinare quelle che vengono definite skill ‘soft’, le più richieste nella volatilità del nostro sistema economico e che tutte le donne che sono anche madri sviluppano naturalmente. La velocità delle trasformazioni ha raggiunto ritmi ai quali fatichiamo ad adeguarci, serve un grande sforzo di volontà, e le donne dimostrano maggiore consapevolezza. Oggi come 40 anni fa. L’immagine della donna che si sorregge il capo è stata catturata da Francesco Varanini nel 1976 a Santo Domingo de Onzole, provincia di Esmeraldas in Ecuador e ci mostra tutta l’intensità dello sforzo che si compie nel tentativo imparare qualcosa. Uno sforzo enorme, acuito dalla non necessità di imparare qualcosa di nuovo. E qui sta la chiave: non sappiamo come evolverà il mondo del lavoro tra qualche anno, ma abbiamo la certezza che non ci sarà spazio per chi, per non avere fatto la fatica di apprendere, non avrà strumenti per dimostrare che il suo cervello è, ancora, lo strumento più potente di cui disponiamo.

 

Comments (4)

    • Gentile Alessandro, ha ragione. Questa non è una sede dove fare politica. E’ anche vero però che a volte è giusto esprimere un parere, prendere una posizione. Se questo poi alimenta un sano e argomentato dibattito tra i lettori, ben venga.

  • sempre incisivi ed attuali i tuoi commenti. sintetizzano perfettamente le mie preoccupazioni di una piega culturale sempre meno culturalmente accorta.

  • Forse non è questo la sede per fare politica. Come tante persone neanche io mi sognerei di fare politica, ma intanto, attraverso giornali, di varie opinioni seguo quello che succede, e quello che dicono giornalisti che conosco per vecchia fama e che stimo, e altrettanto seguo altri giornali e altri giornalisti che non conosco, o conosco poco.
    Purtroppo da un pò di tempo siamo capitati male: i nostri governanti , non solo degli ultimi anni, ci hanno (o mi hanno)
    deluso. Alle ultime votazioni non ho votato l’accoppiata DiMaio-Salvini, perchè non mi hanno dato nessuna fiducia.
    Da come si stanno comportando, penso che le cose per l’Italia andranno ancora peggio di prima, per la loro presunzione
    e incompetenza. Sarò pronto a richedermi (e lo spero) ma la mia forse è illusione. Sergio Cotugno

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