La felicità in una tazzina

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Serata di fine agosto. Dopo aver cenato, finita la passeggiata d’ordinanza sul lungomare saliamo a casa di una coppia di amici. I padroni di casa non avevano previsto la visita ma siamo in confidenza, le irruzioni nella privacy non vengono nemmeno considerate tali. Entriamo, e un particolare in casa provoca lo sconcerto degli astanti, maschi. La padrona di casa, ancor prima di uscire a cena, aveva apparecchiato la tavola per la prima colazione del marito. Impossibile non notare il setting in un angolino del soggiorno con tavolino sapientemente posizionato ‘fronte mare’. La vista di tazza, teiera, zuccheriera, miele e biscotti ha lasciato attoniti coloro che, in un solo istante, si sono sentiti come avessero vissuto invano sino a quel momento. Un’esistenza deprivata di quella coccola al risveglio pareva quasi indegna di essere vissuta. Qualsiasi commento delle mogli in quel momento sarebbe risultato inutile, fuori luogo, intempestivo… come recuperare decenni di colazioni mancate? Impossibile… si dovrà correre ai ripari in altro modo… Tant’è. Come scriveva Tolstoj, tutte le famiglie felici si somigliano, quelle infelici lo sono ognuna a modo suo.

Credo ci sia tanto in quell’immagine della tavola apparecchiata per colazione. Trovo insopportabili le immagini del popolo di Facebook e Instagram che posta tramonti, albe, vedute tutte uguali ma, soprattutto, dove si cerca di enfatizzare la felicità del momento. Ma chi l’ha detto che dietro lo scatto dell’ennesimo tramonto ci sia uno stato d’animo che eguaglia la bellezza dell’immagine? Dove sta scritto che davanti a un mare trasparente per forza ci sia un uomo, una donna felice, in pace con se stesso? Ma soprattutto, da dove nasce l’esigenza di gridare al mondo (ai pochi follower che abbiamo, che mica tutti sono i Ferragnez…) una felicità presunta?

La rete ci ha costretto a modalità stereotipate di felicità: l’alba, il tramonto, il locale del momento, l’aperitivo in riva al mare… Ormai si va al ristorante per postare sui social la foto del piatto che abbiamo ordinato, poco importa che sia buono, l’importante è far sapere che siamo lì. Nel frattempo però la nostra vita scorre e non saranno i like alle foto a determinarla. E se siamo caduti in questa tranello bene darci una scossa e tornare alla vita reale. L’immagine della colazione è la perfetta metafora di quel che rischiamo di perdere: il virtuale al posto del reale. Ci sentiamo realizzati per aver fatto credere alla rete di essere in uno stato di grazia, una felicità che dura l’attimo che impieghiamo per pubblicare una foto, poi possiamo tranquillamente ripiombare nel nostro stato di quotidiana normalità.

Ma la felicità, il benessere, stanno altrove. E li troviamo in piccoli gesti che diventano potenti proprio perché rimangono nel nostro privato: momenti trascurabili di felicità, come li aveva definiti Francesco Piccolo in un volume di qualche anno fa. Trascurabili ma indispensabili, perché non siamo felici alla vista di qualcosa. Stiamo bene perché qualcuno ha fatto qualcosa per noi, con amore e generosità. In casa, al lavoro, nella vita. Finite le vacanze stiamo tutti rientrando nelle nostre dimensioni quotidiane. Pensare a gesti ‘trascurabili’ che possono determinare la felicità di chi amiamo, o di chi sta alla scrivania accanto, potrebbe essere una buona strategia. Più efficace di qualsiasi rimedio antistress proposto dal ‘social’ di turno.

Commento

  • Complimenti cara Lupi, per il pezzo che inserirò nella mia lezione “Considerazioni sulla felicità” che svolgo da alcuni anni (quando della “felicità” pochi, se non nessuno, se ne occupava!).
    P. Foschi

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