Il senso della premessa

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Già, il senso. Ha senso raccontare da dove vengo per capire l’atteggiamento verso la vita, il lavoro, le relazioni. Mio padre, già quarant’anni fa mi ripeteva che i confini non hanno senso, che il mondo è grande, che le opportunità bisogna andarsele a cercare. Mi diceva anche dovevo sempre pormi in una situazione di vantaggio, che dovevo poter essere libera di scegliere. Ma che per farlo avrei dovuto studiare, lavorare tanto. Lui voleva un figlio maschio, mi diceva sempre che se fosse nato un maschio l’avrebbe chiamato Paolo.

Era tale il desiderio di avere un maschio che da piccola mi portava dal suo barbiere e mi faceva tagliare i capelli cortissimi. Non potevo essere un maschio, ma assomigliare a un maschio sì. Crescendo non poteva più lavorare di forbici ma, pur vedendomi poco faceva di tutto per infondermi i suoi valori che facevano leva sul lavoro, e sulla libertà personale. Quando gli annunciai che mi volevo sposare, capito con chi, mi chiese se avevo già trovato una domestica. Un’altra Teresina no, non ce ne sono più nemmeno sul mercato. Nemmeno per chi non ha risentito della crisi e può permettersi maggiordomi professionisti. Lei è diventata parte della famiglia, e i sentimenti, si sa, non hanno prezzo.
In casa mia, avrete capito, si viaggiava molto. C’erano valige sempre pronte, da fare e da disfare. Un giorno la Teresina, annuncia: “Signora, ho trovato un paio di mutande da donna nella valigia di suo marito”. Solo un bravo regista e attori come non ce ne sono più potrebbero riprodurre la scena. Immagino un film con Cary Grant e Doris Day. Dove anche le situazioni più paradossali vengono affrontate con quella dose di ironia che consente di sopravvivere con leggerezza ai momenti peggiori. Dove nessuno urla, e una buona dialettica risolve le situazioni più drammatiche. E quello, è il caso di dirlo, è stato un episodio drammatico. Un episodio in cui avere la prontezza di applicare con rigore il metodo scientifico può essere d’aiuto. La mamma con freddezza e sangue freddo ordina: “Teresina, le porti qui”. Sono stati momenti interminabili. Il papà era già praticamente tramortito quando la Teresina si presenta con la prova. Mia mamma cercava di prolungare quel momento con una buona dose di sadismo e, dopo aver fin troppo a lungo esaminato il suddetto reperto, sentenzia: “Teresina, sono mie”. Comunque, per tornare a me, era turbato dal fatto che non gli sembrava fosse prevista la presenza di qualcuno che con continuità e assiduità si occupasse di me e della mia nuova famiglia. Da figlia mi dico che se i genitori sono turbati, i figli farebbero bene a fermarsi un attimo, ma tant’è… Era evidente ai suoi occhi che avrei dovuto lavorare, costruire il mio destino e non fare la moglie di un avvocato. Brava persona, per carità, ma con un retroterra diverso dal mio. Un’educazione diversa. Figlio unico con mamma e nonna che vivevano per compiacerlo. Non esistevano cameriere in casa, c’erano le donne. Era evidente che sua moglie non potevo essere io. Era evidente a tutti tranne a me, che ho voluto il matrimonio con una determinazione davvero insensata. Durante la cerimonia mio papà ha pianto ininterrottamente, sapeva a cosa andavo incontro. Il film di quello che sarebbe accaduto era chiaro ai suoi occhi, ma una malattia non gli ha consentito di guardarlo. Se n’è andato presto ma le sue parole risuonano fortissime nella mia testa. Mi diceva sempre che se qualcuno avesse alzato la voce con me io avrei dovuto essere nelle condizioni per guardarlo dall’alto in basso. E gridare più forte anche parlando piano. In verità nel nostro dialetto cremonese l’espressione è più colorita, ma il senso è questo. Il senso è che tutti e due i miei genitori, pur vivendo vite diverse, mi hanno trasmesso principi identici. Si può prendere in mano la propria vita oppure decidere di vivere la vita di qualcun altro. A volte è più facile essere deboli. A volte conviene. Soprattutto alle donne. A me hanno insegnato che non c’è spazio per la debolezza. Che bisogna vivere da protagonisti, anche perché ci si diverte di più. Nel giro di pochi anni la trama del mio film si è srotolata secondo il più classico dei copioni. Con una differenza. Nel nostro cattolicissimo Paese la fine di un matrimonio è ancora, per la famiglia, una sconfitta sociale.
Per una madre quasi una vergogna ammettere il divorzio della figlia. Nel mio caso non è andata proprio così. Quando si è deciso che mi sarei sposata e che la mia famiglia avrebbe provveduto alle spese per la cerimonia perché la famiglia di mio marito pensava alla casa, mia mamma era furibonda. Sapeva benissimo come sarebbero andate le cose e buttare milioni dalla finestra per ricevimenti e fiori proprio non le andava giù. Mi fece una proposta che non ho mai sentito fare da nessuna mamma. La sostanza era questa: lei mi avrebbe versato in banca l’equivalente della somma che serviva per il matrimonio (svariate decine di milioni delle vecchie lire) e io e il mio fidanzato ci saremmo sposati per i fatti nostri senza rompere le scatole a nessuno. Risultato? In tasca mi sarei trovata un bel gruzzolo… che non si sa mai.
Naturalmente ho rifiutato e nel mio armadio giace ancora un abito costato quanto un’utilitaria, la cassetta del filmino non so più dov’è mentre le foto del matrimonio, rilegate in un album in pelle, sono in una scatola in cantina.
La fine del mio matrimonio era abbastanza prevedibile. Mia mamma sembrava lì ad aspettarmi. Il ‘te l’avevo detto’ aveva lasciato il posto al ‘non capisco come tu abbia fatto a resistere così tanto’. Per non lasciare nulla di intentato nel frattempo erano nati due bambini. La mia fortuna. Altrimenti ora sì che il senso  faticherei a trovarlo…
Comunque, con il piglio manageriale che la contraddistingue, mia mamma, del tutto diversamente dalle mamme delle ragazze della mia età, in lacrime a ogni divorzio, ha sapientemente pianificato il post-matrimonio. Casa, macchina, guardaroba. Insomma, è bastato poco perché tutto fosse pronto per un nuovo inizio. Mica male. Soprattutto se pensiamo che mediamente, ancora oggi, le donne della mia età si sentono dire dalle loro madri che il matrimonio è sacrificio, che anche loro hanno sopportato e ancor più spesso taciuto, fatto finta di niente.
La cultura cattolica di dice che siamo nati per soffrire e spesso facciamo quanto in nostro potere per acuire le nostre sofferenze. Ecco io devo appartenere a quella categoria lì.
Mia mamma lo sa, ma lei in chiesa non è andata quasi mai e, soprattutto, delle convenzioni se ne frega. Mio figlio Andrea, suo nipote, ha scandalizzato anche la catechista quando all’affermazione ‘Dio ha creato Eva dalla costola di Adamo’ ha ribattuto a gran voce che erano tutte sciocchezze, che la nonna biologa gli aveva spiegato che il primo essere vivente era un organismo di sesso femminile…

Comments (4)

  • Cara Chiara,
    sono venuta alla presentazione del tuo libro che sto leggendo.

    Mi piace molto, con il suo stile simpatico che con ironia ci fa pensare alla nostra vita di donne sempre di corsa.

    Io non sono una donna manager, sono un’assistente di direzione e vorrei dirti un segreto: sono anche la seconda moglie.

    Per 20 anni sono stata la “seconda moglie” di tutti i miei capi che, pur essendo nella maggior parte dei casi, già sposati, mi hanno utilizzata come sostituta della moglie per tutta una serie di attività come pagare bollette, assicurazioni casa, auto e salute, ricordare scadenze, prenotare ristoranti, fotocopiare i compiti dei figli e anche comprare regali alle “prime mogli”.

    Per alcuni sono stata una spalla sui cui piangere, quella con cui incavolarsi, perchè con la prima moglie non lo potevano fare, da altri sono fuggita per non diventare davvero le “seconda moglie” anche in altre occasioni più particolari.

    Questa è la vera fortuna dei manager: hanno 2 mogli, una a casa e una in ufficio e quella in ufficio è più sottomessa e ubbidiente di quella a casa.

    Per questo motivo fanno carriera, perchè non devono mai preoccuparsi dei particolari, ci siamo noi che ci pensiamo, a volte arriviamo anche a prevenire le loro necessità.

    E noi a casa, abbiamo mariti in carriera o no, ma sempre mariti.

    Quindi noi assistenti di direzione o se vuoi impiegate, forse, siamo quelle messe peggio, cosa dici? anche perchè il nostro stipendio non ci permette di avere tate sostitutive, insegnanti di supporto e non possiamo mai lasciare l’ufficio, perchè uno dei nostri doveri è il “presdio” come se fossimo sempre in guerra e non potessimo mai lasciare il fortino.

    Ma siamo donne e ce la facciamo lo stesso.

    • Grazie per avere partecipato alla presentazione del libro.
      Sergio Dompé l’ha detto chiaro, abbiamo un software più sofisticato e quindi siamo capaci di performance straordinarie. Ma se siamo così capaci dovremmo anche riuscire a scardinare certe logiche che davvero hanno poco senso. Ci vuol coraggio, anche solo per parlarne come hai fatto tu.
      Spero che ci siano tanti altri commenti come questo per alimentare il dibattito.

    • Rispondo volentieri all’intervento di Mnovati, con una riflessione per lei e per me stessa. Cara amica, tu dici che per venti anni sei stata utilizzata come seconda moglie da tutti i tuoi capi, e non fatico a crederlo perchè ho condiviso, per un periodo della mia vita, la professione che hai scelto. Conosco bene l’atteggiamento dei capi, e conosco bene quello sguardo in cui ti chiedono un favore personale, e noi non riusciamo a dire di no. Premetto che non c’è una colpevolizzazione verso il tuo comportamento, ma onestamente penso che quando un capo si espone così tanto con una sottoposta, lo fa perchè sa che se lo puo’ permettere. Sa che riceverà un sì, incondizionato. Non è che spesso siamo noi che dovremmo sottrarci a queste azioni che riguardano la vita personale del capo? E non lo facciamo? Ti parlo per esperienza; mi capitò la richiesta della prenotazione di un viaggio con la famiglia, per il mio ex capo. Capii che non si trattava di un viaggio di lavoro e scelsi di non stare zitta. Non feci storie, non mi scandalizzai e dissi senza troppi fronzoli “penso che non sia un terreno in cui io debba operare”. Lui naturalmente si adirò moltissimo e per lunghissimo tempo sopportai tante angherie da parte di questa segretaria ribelle. Non accettava che io mi rifiutassi di servire il caffè, a lui e ai suoi eventuali ospiti. La prima volta che me lo chiese dissi: Sì, un caffè, volentieri. A me piace amaro. Mi procurai due cialde, una per me e una per lui. Lo bevvi sfrontatamente davanti a lui. Non me lo perdonò mai e cercò sempre di ottenere il suo caffè, offerto spontaneamente dalla sottoscritta, senza che io lo bevessi con lui. Non lo ottenne mai. Poi se ne fece una ragione, e spesso bevemmo insieme il caffè ma fino all’ultimo non mi perdonò la mia ribellione. Sono stata anche io spesso costretta al presidio e alla sottomissione, e non ti nascondo che è stato difficilissimo costruire dei muri fra la mia disponibilità personale e quella professionale. Il capo mise in giro in azienda l’idea che fossi una scansafatiche, solo perchè mi rifiutavo di andare a comprare delle cose per lui. Non ho mai detto no ad un incarico che pensavo di poter portare avanti da sola, nell’ambito delle cose lavorative. Non è mai stato facile, ma riconosco che con me il capo non si è spinto mai oltre un certo limite in quanto sono io che ho delimitato lo spazio, e gli ho datto capire “fino a questo livello non puo’ arrivare”.

  • Sono venuta alla presentazione del libro e l’ho letto tutto, terminato da poco. Interessante. Più di tutto a mio avviso la posizione del mondo maschile, di quelli che hanno raccontato la loro “versione”. Sono d’accordo con il commento precedente: la vera fortuna degli uomini dal punto di vista professionale è avere tutto il tempo e le energie fisiche e mentali da dedicare alla carriera. per il resto ci sono le mogli/compagne/fidanzate/colleghe. Con prole o meno. perchè non è solo questione di figli…

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