Diversity management in azienda. A scuola, no.

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Oggi ricominciano le scuole. Mio figlio Giovanni (anni 15 seconda liceo) mi telefona già alle 8.20 e tuona: “Mamma, stamattina la scuola inizia alle 9.30, mi hai fatto uscire di casa un’ora prima!”. Replico “Quando abbiamo chiamato per chiedere informazioni – era fine agosto e il pargolo voleva rientrare a Milano qualche ora prima dell’inizio delle lezioni, non oltre, che la città non gli piace – ci hanno dato questo orario, evidentemente poi hanno spostato di un’ora. Ma poi, a scuola vai tu, non sei tu che ti devi informare?”. “D’accordo – replica – ma se tu mi dai un’informazione do per scontato che sia corretta”. Cominciamo bene, non è ancora suonata la campanella e lo stress è già a livelli di guardia. Ma il tema non è questo. Anche Radio 24 ha dedicato un dibattito mattutino alla scuola, affrontando un tema serio, che merita secondo me una riflessione. Chi legge abitualmente riviste di management sa che il tema del momento è il diversity management: le organizzazioni devono sapere integrare persone con background culturali differenti. La diversità è una ricchezza, dalla diversità si trae valore. Bene. Ma come si fa a teorizzare di questi argomenti se poi nella realtà la diversità viene rifiutata? La notizia è questa: nelle scuole dove la percentuale di stranieri è elevata i genitori non iscrivono i loro figli. Temono che l’apprendimento venga rallentato dalla presenza di bambini che non parlano l’italiano. E loro come lo sanno che l’italiano non lo parlano? Nella maggior parte dai casi si tratta di bambini nati qui, l’italiano lo parlano eccome… Una docente che ha preso parte alla trasmissione obietta, giustamente, secondo me, che l’apprendimento lo rallenta molto di più il ragazzino maleducato, e dio sa se ce ne sono, aggiungo io… Vorremmo far crescere i nostri figli in un ambiente internazionale ma se in classe c’è qualche straniero di troppo li iscriviamo da un’altra parte? Le scuole internazionali vanno bene solo se sono costosi istituti frequentati da figli di diplomatici o manger expat, come si dice? E qui mi avvicino al quesito che vorrei porre: se questo è il modello culturale che trasferiamo ai nostri figli, se mai questi dovessero da grandi trovare lavoro in un’azienda, che speranze avrà un formatore di fare cultura sui temi dalla diversità?

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