Intervista a Luisa Pogliana

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‘Ho delle responsabilità nel fatto di non aver preso le misure dei giochi di potere, l’ignoranza di alcune dinamiche’, dice un testimonianza. Le donne che arrivano ai livelli più alti continuano a essere pochissime, ma sembra che ci siano anche difficoltà da parte delle donne a muoversi verso il potere.
I centri di potere sono ancora appannaggio degli uomini, e gli uomini continuano a scegliersi tra loro. Condividono gli stessi modi di pensare, hanno consolidato ambiti di appartenenza per i loro scambi: l’ammissione al club avviene per cooptazione. Così le donne possono arrivare a posizioni anche molto qualificate, ma dove hanno il ‘potere di fare’ nel loro ambito, non quello politico e decisionale strategico. Questo meccanismo si perpetua perché l’organizzazione non funziona in modo trasparente, favorendo la cultura dell’arbitrio e del favoritismo, ed è difficile da denunciare perché avviene in modo occulto. Il rapporto con il potere in azienda è perciò molto problematico per molte donne, perché storicamente è un ambito da cui sono state escluse, non hanno un’esperienza consolidata su questo terreno. Per cui, a loro volta, tendono a prenderne le distanze, e si concentrano solo sulla professionalità. La cosa importante che possiamo raccogliere dalle esperienze raccontate è proprio il tentativo di cambiare questo atteggiamento: non chiamarsi fuori. Certo, non schiacciandosi sui modi richiesti dalla gestione maschile del potere, ma anche non facendosi schiacciare: c’è consapevolezza che questo livello non si può trascurare. Per il proprio percorso individuale, e per poter cambiare qualcosa nelle regole che ostacolano tutte le donne.

‘Se il top management nelle nostre aziende fosse un po’ meno al maschile, se ci fossero ai vertici più donne che condividono le stesse problematiche quotidiane dello staff, credo che gli ambienti di lavoro sarebbero, per tante donne, un filo più umani’, si legge in un’altra testimonianza. Quali cose le donne cambierebbero nell’organizzazione, per rendere la vita di lavoro più ‘umana’?
Quello che è già cambiato è proprio l’orientamento manageriale delle donne, a partire da se stesse, dal volere lavorare senza rinunciare al resto della vita. Ci sono critiche e visioni diverse sull’organizzazione del lavoro, che oggi ha rigidità superabili senza traumi per l’azienda e che permetterebbero alle donne di lavorare e vivere meglio. Il punto centrale è legato al fatto che, in qualunque posizione professionale, una donna ha il carico principale della vita famigliare. Quindi il tempo è il fattore critico. Ciò che viene criticato in maniera compatta è un uso dissennato del tempo in azienda, perché le valutazioni, soprattutto nelle aziende italiane, si fondano sulle carriere presenzialiste. Ovvero restare e farsi vedere in ufficio a oltranza, e questo a prescindere dal fatto che ce ne sia una vera necessità, e da cosa si fa realmente in ufficio e quali sono i risultati. È ovvio che un/una manager deve essere presente, vicino alle attività e alle persone che dirige, ma non necessariamente sempre e comunque. Quello che le donne chiedono è la flessibilità nella gestione degli orari di presenza in ufficio (tanto si è sempre in contatto e raggiungibili con i supporti tecnologici). Già ora, per esempio quando ci sono bambini piccoli, tutti vedono e valutano negativamente la donna che lascia l’ufficio alle 18.30 (orario non eroico), ma nessuno la vede quando riaccende il computer per lavorare dopo che i bambini si sono addormentati. E chiedono che le valutazioni avvengano per meritocrazia, non per presenzialismo: ovvero, lavorare e valutare per obiettivi. Cosa ci perde l’azienda? Cosa ci guadagnerebbero tutti?

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