Fabbrica, sostantivo femminile

Se non studi vai a lavorare. I genitori di tutta Italia, dagli anni del boom economico fino ai giorni nostri, si sono riempiti la bocca con la minaccia delle minacce. All’adolescente svogliato, fannullone, apparentemente disinteressato a considerare lo studio una sorta di assicurazione sulla vita – la laurea – è stato inculcato il seguente rapporto causa-effetto: non vuoi faticare sui libri? Bene, allora metti in conto di passare la tua vita ad usare la forza fisica. Non vuoi fare la fatica di pensare? Allora qualcun altro lo farà per te, tu metti a disposizione la tua energia e ti rassegni ad eseguire un compito che qualcuno ha destinato per te. Dove? In fabbrica. Un luogo decisamente poco accogliente, di solito rumoroso e non troppo pulito dove braccia umane eseguono mansioni ripetitive. Un luogo alienante, dove è netta la separazione tra chi pensa e chi esegue, tra chi decide e chi fa. Una separazione che riflette un assetto sociale, da una parte i lavoratori dall’altra i manager.

La minaccia contiene in sé anche un altro messaggio, che tanto ha contribuito a creare una pericolosa controcultura: il lavoro industriale, in fabbrica, è un lavoro di serie B, un lavoro da sfigati, per usare un termine caro ai giovani. E legioni di genitori hanno continuato ad avvalersi della potente minaccia senza rendersi conto di come stava cambiando il mondo. Quanti di noi hanno visitato una fabbrica negli ultimi 40 anni prima di minacciare la prole di volerla spedire sul set di Tempi moderni? Se qualcuno lo avesse fatto magari avrebbe percepito come stava cambiando il vento.

Come ci ha raccontato Marco Bentivogli, segretario generale FIM-CISL al NobilitaFestival a Bologna organizzato da FiordiRisorse, era il 1978 quando nello stabilimento Fiat di Cassino si è introdotto un sistema di assemblaggio automatico, per produrre la Fiat Ritmo la forza fisica dell’operaio non era più necessaria. Sono passati 40 anni ma la retorica della fabbrica come luogo alienante è dura a morire. Ne sanno qualcosa i nostri imprenditori che faticano ad attrarre i giovani. In una cena organizzata prima di un nostro incontro FabbricaFuturo un industriale bergamasco racconta di organizzare visite guidate, in collaborazione con le scuole, per cercare di costruire una nuova narrazione del mondo industriale. E lo stupore di confrontarsi con un ambiente pulito, dove il rumore è poco e le persone girano con i camici bianchi è ancora grande, i ragazzi hanno viva dentro di loro un’immagine differente.

Ma le fabbriche oggi non cercano più mano d’opera, cercano menti d’opera, l’individuo alienato all’interno di un ciclo produttivo ha lasciato il posto ad una persona che deve governare un sistema complesso, in cui le operazioni ripetitive, e faticose, sono totalmente delegate alle macchine. Per questo le nuove tecnologie umanizzano le fabbriche, perché in questa grande rivoluzione che chiamiamo Industria4.0 la differenza la fa l’uomo, con la sua capacità di governare e non essere governato. Anche perché la produzione ripetitiva tende a scomparire e si affaccia la prospettiva di una nuova manifattura che intercetta sempre più i bisogni dei consumatori.

Ci confrontiamo con una nuova manifattura decisamente più sexy rispetto alla narrazione che ci è stata proposta con pervicacia, all’interno della quale servono nuove competenze; si devono anche sviluppare nuove dinamiche di relazione, l’operatore iperspecializzato diventa uno stakeholder importante e un attore nella partecipazione strategica dell’impresa. In questa nuova manifattura assume un ruolo centrale la formazione, che deve essere progettata assecondando le esigenze formative dei lavoratori e non seguendo le offerte dei cataloghi. Ecco che nella nuova fabbrica anche il ruolo del direttore Hr cambia: come ha sottolineato Eugenia Rossi di Schio, docente del dipartimento di ingegneria industriale dell’Università di Bologna, il direttore del personale deve portare un nuovo linguaggio valorizzando competenze trasversali e collaborando alla costruzione di una nuova dinamica di relazione con il mondo sindacale. Serve una rivoluzione di senso, e questa è l’occasione per mettere in soffitta antagonismi tra sindacato e azienda che non hanno più ragione di esistere. La nuova manifattura ci darà anche un’altra opportunità, e mi riferisco al lavoro delle donne. Nelle nuove fabbriche non servono braccia, servono menti. Avviare più ragazze alle professioni STEM, e che fanno parte degli ambiti scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico, servirà a portare anche più donne in un settore che per tradizione ha dato più lavoro agli uomini. Del resto la fabbrica, se ci pensiamo, è un sostantivo femminile.

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