Cambiare sguardo

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Crescono le rappresentanze femminili in tutti gli ordini professionali. Ma il pay gap resta alto. Tradotto, significa che le donne lavorano di più ma guadagnano di meno. Recente la pubblicazione su Il Sole 24 Ore di un’indagine che analizza il divario salariale nelle professioni. I risultati meritano una riflessione. Il divario salariale tra gli avvocati raggiunge il 59%, il 55% tra gli architetti, il 50% tra ingegneri e tra il 30 e il 40% circa il divario tra dottori, commercialisti e ragionieri. Il problema esiste anche per chi lavora in azienda: le manager guadagnano in media ottomila euro in meno dei colleghi maschi. La buona notizia, sempre dalla ricerca pubblicata dal quotidiano economico, è che cinque anni fa il divario raggiungeva i ventimila euro. C’è speranza, dunque. Altra constatazione: le donne studiano di più, e meglio, dunque la rappresentanza femminile all’interno degli ordini professionali cresce, anche all’interno di feudi maschili per tradizione. Pensiamo agli ingegneri, dove le nuove iscritte all’ordine arrivano al 26%. Anche l’architetto è una professione apprezzata: le donne architetto al di sotto dei 30 anni raggiungono il 56% degli iscritti. Per ora. Professioniste più preparate e anche più attente alla loro formazione. È quanto emerge dall’indagine ICF Global Coaching Client Study sul profilo dei clienti del coaching, commissionata dalla International Coach Federation a Pricewaterhouse Coopers e all’Association Resource Center, svolta tra settembre e novembre 2008 e rivolta a 2.165 clienti di coach in 64 Paesi. Bene, i clienti dei coach in Italia come nel resto del mondo sono in maggioranza donne (il 58,2%) in età compresa tra i 26 e i 35 anni (il 34,5%), laureate (il 52,7%). Quali le motivazioni che spingono le professioniste italiane a seguire percorsi di coaching? Perfezionare le proprie capacità sul lavoro, realizzare opportunità di carriera, migliorare le relazioni e potenziare l’autostima sono tra le cause ricorrenti. In aumento dunque le fruitrici del coaching, ma anche il numero delle coach professioniste. Professioniste motivate (anche a lavorare di più guadagnando meno) e preparate. Ma come conciliano il lavoro con la famiglia? Nel nostro Paese, dove il 20% delle donne lascia il lavoro dopo il primo figlio, il tema sta catalizzando l’attenzione di Università e Istituzioni. Risale allo scorso gennaio la prima edizione del Premio Famiglia-Lavoro, iniziativa promossa dall’Alta Scuola Impresa e società dell’Università Cattolica insieme con Regione Lombardia, che ha premiato le aziende più attente al tema della conciliazione. Alla prima edizione del premio hanno partecipato 34 aziende e ne sono state premiate sei: Banca Popolare di Milano, Edison, Gruppo Johnson&Johnson, Canclini Tessile, Lubiam Moda per l’uomo, BeM Service Center. Due le menzioni speciali, rispettivamente a Cittadini e ATM – Azienda Trasporti Milanesi. Il premio diventerà un appuntamento annuale, con l’obiettivo di concentrare l’attenzione sul tema e avviare buone pratiche sul territorio. Perché le aziende devono manifestare, concretamente, la loro attenzione nei confronti delle persone. E delle donne, che devono poter scegliere di essere mogli, madri e professioniste. Speriamo. Perché, come ci ha raccontato Maria Cecilia Santarsiero, amministratore delegato dell’omonimo studio, “per come è organizzata, la struttura del lavoro scoraggia ogni tentativo di costruire una vita più equilibrata, fondata su valori alternativi a quelli della carriera o del potere di status. L’inerzia, la tradizione, la necessità di controllo contribuiscono a creare un sistema che resiste alla flessibilità e capace di rispettare le differenze di genere. Quando una donna chiede di modificare il proprio stile di vita provando a ridurre o a modificare il suo orario di lavoro per includere la dimensione personale o familiare, subisce inevitabilmente anche una riduzione del suo peso professionale all’interno dell’azienda”. Quest’anno la ricorrenza della giornata dedicata alle mamme che lavorano è giunta alla quindicesima edizione. I bambini hanno la possibilità di trascorrere del tempo nell’ufficio dove lavorano le madri. Far entrare i bimbi negli uffici anche per far meglio percepire la complessità che la conciliazione porta con sé. E anche, magari, per guardare il proprio luogo di lavoro con gli occhi di chi ancora riesce a meravigliarsi delle cose.

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