Quanto costa ‘non’ scegliere una donna?

Parliamo di donne, di lavoro, di valorizzazione del talento femminile che nelle aziende italiane fatica a esprimersi. Dati poco incoraggianti emergono dall’indagine Gestire il talento femminile per esprimere il potenziale dell’Impresa condotta da Randstand insieme con “The European House – Ambrosetti”. La ricerca ha evidenziato le difficoltà dei talenti femminili a esprimersi sul posto di lavoro: mancanza di reti sociali che facilitino la conciliazione, differenze salariali, scarsità di accesso ai percorsi di carriera e di crescita delle competenze sono i principali ostacoli alle carriere.

Alle donne è riconosciuta capacità creativa, vista come risorsa di miglioramento continuo, capacità di pianificazione nel lungo periodo e di interagire con una modalità attenta agli individui. Nonostante questo il valore delle donne resta troppo spesso nell’ombra. Come mai? In questo articolo Alessandra Rizzi ci racconta delle azioni che si possono mettere in atto per avviare quel cambio culturale indispensabile per rompere alcuni stereotipi. E incidere finalmente sui comportamenti

Cambiare? Non solo in azienda
Facciamo un passo indietro. Prima di fare analisi su cosa dovrebbe cambiare in azienda dobbiamo interrogarci su cosa deve cambiare in assoluto, perché le organizzazioni sono collocate in un contenitore più ampio. Riflettere sul contesto culturale in cui le nostre organizzazioni sono calate è fondamentale poiché nel nostro Paese le donne si autovalutano su attività extra aziendali e la conciliazione grava ancora sulle spalle delle donne. La mania di perfezionismo che affligge il genere femminile fa sì che le donne puntino essere ineccepibili dal punto di vista professionale e impeccabili sul fronte domestico. Ecco, credo che la competizione che noi donne ci giochiamo su aspetti che non dovrebbero essere prioritari mina nel profondo autostima e benessere. Pretendiamo spesso troppo da noi stesse: se spendiamo le nostre energie in un progetto professionale non possiamo, nello stesso tempo, essere cuoche impeccabili, tanto per fare un esempio. Applicare il principio manageriale della delega alla cura della famiglia, senza sensi di colpa, sarebbe un grande passo avanti. Certo, al lavoro che le donne devono fare su di sé deve corrispondere una risposta concreta da parte delle aziende che dovrebbero facilitare l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. Oggi, in Italia, è occupata una percentuale del 46% di donne contro un 72% di uomini. Le ragioni? Le organizzazioni sono frenate dalle forme di tutela che lo stato riconosce alla maternità e dai costi correlati: dal periodo di astensione obbligatoria alla possibilità di assentarsi dal lavoro in alcune circostanze fino al compimento dell’ottavo anno di età.

I costi della non scelta
L’approccio che prevale è sbagliato. E noi abbiamo affrontato il tema da un altro punto di vista. Ci siamo chiesti, quanto costa all’organizzazione non scegliere una donna? Innanzitutto l’azienda si preclude di poter contare su una diversità di visione, di approccio di competenze. Ma anche di professionalità. Pensiamo ai neolaureati, che rappresentano il nostro bacino prevalente di nuovi assunti: già da alcuni anni, i voti di laurea delle ragazze sono più alti di quelli dei ragazzi. Se è vero che il voto di laurea è un indicatore di qualità, le aziende che non scelgono le donne si stanno precludendo di avere in azienda i migliori talenti. Quanto costerà poi in termini di vantaggio competitivo sul mio mercato di riferimento non poter contare su professionalità eccellenti? Occorre cambiare set di mentalità e cercare di capire quanto costerebbe non scegliere i migliori invece di concentrarsi tout court sui costi della maternità. E in un’ottica di costo-beneficio, prevedere investimenti che aiutino la conciliazione piuttosto che non gestire affatto il problema escludendo il genere femminile dal contesto lavorativo. All’azienda, a conti fatti, costa meno abbracciare un modello culturale diverso, che facilita la conciliazione, piuttosto che escludere i talenti. O, ancor peggio, assumere le donne con la garanzia che escluderanno la maternità dal loro progetto di vita. Bene, lavorare sullo sviluppo di un modello culturale differente è stata la scelta di Randstad, che ha capito l’importanza della ‘non esclusione’ delle professionalità. Oggi più che mai è importante valutare le situazioni da diversi punti di vista, avere visioni differenti è una ricchezza inestimabile. Certo, in Italia ci concentriamo sulle diversità di genere poiché ancora non si è concretizzata una vera integrazione di etnie e culture. Ma l’arricchimento che proviene dalla diversità è insostituibile.

La nostra risposta
Secondo la nostra legislazione, le donne hanno la facoltà di rimanere a casa in maternità circa un anno. Ma ‘facoltà’ può non essere il termine giusto. Perché spesso accade che le donne vorrebbero rientrare al lavoro ma non possono contare su aiuti e strutture che si prendano cura del bimbo. Le liste di attesa nei nidi fanno periodicamente notizia sulle pagine di tutti i nostri quotidiani e i costi delle strutture private sono proibitivi. Spesso la scelta della madre di non rientrare al lavoro non è affatto una decisione spontanea ma una necessità che deriva dalla contingenza. Quindi non è una scelta libera. In Randstad, preso atto del fatto che la situazione che si trovano ad affrontare molte giovani madri è penalizzante per loro e, di riflesso, anche per l’organizzazione, abbiamo istituito il Baby Randstad, un contributo economico di 250 euro al mese che eroghiamo ai dipendenti che scelgono di mandare il proprio figlio all’asilo nido. Senza fare distinzioni di genere: diamo un aiuto ai dipendenti, donne e uomini. Perché il cambio culturale passa anche da qui: non sono le donne che devono essere aiutate, ma le coppie di genitori devono ricevere un supporto che aiuti nella conciliazione. E superare il concetto che la conciliazione sia un problema che riguarda le donne sarebbe culturalmente già un grande passo avanti. Nel nostro Paese ancora manca la percezione dell’aiuto alla famiglia e la donna non deve più essere considerata un soggetto debole da aiutare. È la famiglia che va aiutata e questo è un passaggio culturale che altri Paesi hanno fatto, pensiamo alla Francia che ha visto aumentare il tasso di natalità proprio perché ha puntato sull’aiuto alla famiglia. Noi, come azienda, ci stiamo provando. Non solo attraverso l’aiuto economico. Diamo anche massima libertà alla neomamma di decidere quando rientrare al lavoro; sapendo che, fino al terzo anno di età, riceverà dall’azienda un contributo che le consente di non uscire dal mondo del lavoro. Il progetto è entrato a regime agli inizi del 2004 e abbiamo avuto modo di misurarne efficacia e gradimento. Bene, dai dati degli ultimi tre anni si rileva che il 52% della popolazione aziendale è rientrata al lavoro entro i 6 mesi dalla nascita del bimbo –un tempo ideale per la mamma, poiché coincide con lo svezzamento e per l’azienda, che riesce a suddividere le mansioni senza gravi impatti organizzativi– e il 16% è rientrato senza usufruire del periodo di astensione facoltativo di tre mesi. Complessivamente, nel triennio 2008-2010 sono rientrate dalla maternità il 91% delle mamme. Possiamo dire di non vivere il fenomeno dell’abbandono, di non dover gestire alti tassi di assenteismo e turnover. E siamo fieri di contribuire così al benessere psicologico di donne che, abituate a lavorare, soprattutto se non possono contare su nonni e familiari, possono rientrare nelle loro attività.

Competenza, merito e focalizzazione
Bisogna partire dall’idea di voler inserire i talenti migliori. E così abbiamo fatto in Randstad dove l’80% dei dipendenti in Italia sono, selezionati in base al merito, donne (a livello mondiale la percentuale di donne è del 78% su 25.500 dipendenti). Abbiamo prima valutato competenze e merito, poi ci siamo chiesti come supportare i profili meritevoli in un momento particolare della vita. Ma aumentare la base di inclusione delle donne non basta. Il passo successivo è supportarne la crescita rifacendosi a modelli non stereotipati di leadership. Perché se dell’80% di donne dipendenti Randstad non ce ne fosse neanche una nel comitato di direzione o tra i dirigenti o manager in quel caso, come azienda, ci saremmo giocati la metà delle opportunità di essere competitivi. La partita si gioca qui, non tanto sull’inclusione quanto sulla partecipazione alla scelta delle strategie. Ma la strada è ancora lunga, e torniamo al contesto culturale. Vedo donne che, raggiunte posizioni apicali, oltre quasi a scusarsi per essere riuscite, tengono alta una competizione nella vita privata su aspetti sui quali un uomo mai si misurerebbe. E qui torniamo al perfezionismo, di cui accennavo prima, e a una competizione tra donne legata a meccanismi atavici, ma distruttivi nel nostro contesto. L’uomo è molto più bravo a non competere sempre e comunque mentre noi donne, alla gara per la crescita nell’organizzazione, associamo la gara a chi cucina la torta più buona per la festa della scuola, tanto per fare un esempio. Finiamo per essere in competizione su tutti i fronti e questo è controproducente perché, come insegnano i grandi campioni, per vincere bisogna essere focalizzati. Mentre sulle donne grava il peso della valutazione anche domestica. Ma la casa non può continuare a essere percepita come responsabilità della donna, deve essere responsabilità della famiglia. E questo non è un principio del tutto condiviso. Pensiamo ai congedi di paternità, di cui in Italia si usufruisce ancora pochissimo, mentre ci sono uomini all’estero che decidono di occuparsi della famiglia. In Italia l’identità dell’uomo coincide ancora in larga misura con la sua identità professionale. Non esiste un percorso maschile di costruzione dell’identità che prescinda dal lavoro. Il problema sta qui. Ecco come stereotipi sbagliati portano a maggiori pressioni sul genere femminile. Perché se anche a livello familiare si trovano degli equilibri, è vero anche che il contesto culturale fa pressioni enormi. Per questo è importante lavorare sulla cultura, cercando di incidere sull’agire quotidiano delle persone.

Cambiare cultura, poi cambiare l’azienda
Il cambiamento aziendale non può prescindere dal cambiamento culturale. Pensiamo a un giovane che entra in azienda. Se nel suo percorso si porta dietro stereotipi che non aiutano a crescere perché i modelli di leadership e crescita vengono influenzati da stereotipi sociali, si capisce bene come non sia pensabile affrontare il tema del cambiamento aziendale prescindendo dal cambiamento culturale. Noi, come azienda, abbiamo il dovere di chiederci cosa possiamo fare. Innanzitutto possiamo provare a valorizzare e dare spazio a modelli di leadership diversi cercando di creare un ‘contagio positivo’. Partiamo dalle donne. Se ho l’opportunità di crescere all’interno dell’organizzazione e mi devo riferire a un modello, osservare ad esempio come si fa il capo, i miei modelli saranno prevalentemente maschili. Allora, se è vero che un capo è tale se è bravo gestionalmente, se ha visione, capacità di formulare strategie, è vero però che è importante avere dei mentori che sappiano guidare e suggerire modelli diversi. Questo deve fare l’organizzazione: mettere a disposizione modelli diversi cui ispirarsi. Così abbiamo fatto in Randstad dove, in Italia, il 43% delle posizioni di senior management è occupato dalle donne (contro la percentuale del 44,7% in Randstad mondo). Non ci siamo limitati ad assumere molte donne ma le abbiamo fatte crescere. Il problema sono i modelli: le donne provano un senso di solitudine, se il mentore non c’è si confrontano con modelli maschili che per lo più rifiutano. Credo che le aziende debbano cercare di moltiplicare le occasioni di mentorship da un lato, o utilizzare metodologie di coaching che aiutino nello sviluppo individuale. Pensiamo al passaggio da professional a ruolo manageriale: è necessario fare una valutazione del potenziale –che noi facciamo attraverso i development assessment center–, dai quali non emerge se si ha potenziale manageriale ma si valuta che tipo di potenzialità si hanno. Un passaggio molto importante sia per gli uomini sia per le donne, perché passare dall’essere bravo a fare una cosa al gestire un’altra persona che la deve fare, senza sostituirsi ma insegnando, coordinando e gestendo è il passaggio più difficile della crescita di qualsiasi individuo, uomo o donna che sia. E, supportare le persone in questa fase delicata, ci aiuta a capire i punti di forza e le aree su cui lavorare anche in maniera più introspettiva; perché se si cresce come persona si crescerà poi anche come professionista. Le donne esprimono più spesso l’esigenza di ricevere un supporto maggiore dal punto di vista del self belief, del credere in se stesse. In assenza di un modello di riferimento, l’attività di coaching può essere molto efficace e si notano grandi benefici soprattutto in termini di autoconsapevolezza del valore delle donne. Ecco, questa è un’azione concreta che le aziende possono mettere in atto.

Conciliazione, non discriminazione al contrario
Altro grande tema è il supporto alla conciliazione, che va al di là dell’evento della maternità e della famiglia, e che travalica il genere. È importante aiutare le persone a conciliare la vita professionale con la vita privata. Il fatto che ci siano o non ci siano figli non deve compromettere in alcun modo la possibilità di avere una stabilità personale di vita. Altrimenti si verifica una discriminazione al contrario, con la richiesta implicita per chi non ha figli di rimanere in ufficio a oltranza. Anche qui, tenendo conto che la resistenza fisica di uomini e donne è diversa, è importante valutare i risultati e non il tempo passato in azienda, avere chiarezza organizzativa, fare meno politica e più fatti, imparare a usare in modo intelligente la tecnologia che aiuta a lavorare indipendentemente da dove si è. Questi sono tutti elementi che aiutano a snellire l’organizzazione e consentono la crescita di modelli di leadership differenti. Il valore del nostro approccio consiste nel fatto che non ci limitiamo a valorizzare il lavoro femminile ma puntiamo a incidere sulla cultura. Dobbiamo tutti lavorare per sostenere un modello culturale che deve rompere certi stereotipi e porta avanti politiche che modificano la cultura dell’agire quotidiano. Diffondere cultura e incidere sui comportamenti è il più ambizioso degli obiettivi. Noi ci crediamo, e lo portiamo avanti con seria determinazione.

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