La fiducia del capo

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Immaginate un’azienda di famiglia. Immaginate un uomo che entra in ufficio dal suo capo, una donna, riceve un ordine, saluta, chiude la porta dietro di sé e poi chiama il papà, o il fratello del capo in questione così, giusto per aver conferma di ciò che ha appena sentito. Negli ultimi giorni in un più di un’occasione nei nostri convegni abbiamo parlato di fiducia. Se ci mancano chiavi di lettura per interpretare il presente, il direttore del personale ha il compito di guidare le persone ‘fuori dalla nebbia’. Ma creare un clima di fiducia è una bella sfida. Soprattutto se i primi a non fidarsi sono proprio i dipendenti. Giovanna Cutrignelli, responsabile finanziario e risorse umane in un’azienda di famiglia, ci ha messo un po’ a sovvertire quella sgradevole abitudine dei suoi dipendenti che non ce la facevano proprio a riconoscere il suo ruolo. Perché Giovanna era una donna prima ancora di essere capo. E, si sa, costruirsi credibilità, vedersi riconosciute nel proprio ruolo, per le donne non è automatico. Ma Giovanna, che ha raccontato la sua storia nel corso della tappa di Bari dei nostri convegni dedicati alle risorse umane, ha saputo costruirsi uno stile di leadership fondato su meritocrazia e delega: ha cominciato a girare per l’azienda per valutare cosa funzionava e cosa no e ha impostato sistemi premianti trasparenti. E ora comincia a raccogliere i risultati. Bisogna mettersi al servizio della propria azienda. Come sa fare Luciano Barbetta che, sempre nel corso del nostro evento, ci ha raccontato di come l’imprenditore, se vuole avere successo in questo nuovo contesto, deve mettere al centro le persone e non il proprio profitto, deve essere un custode attento, un gestore capace di creare valore per il territorio. Anche lui gira per la sua azienda, dove la maggior parte dei dipendenti sono donne. E ha commosso la platea quando ha raccontato di aver notato una lacrima sul viso di una dipendente, preoccupata per non riuscire a far fronte alle rate del suo mutuo. A quel punto l’imprenditore ha due possibilità: ignorare le lacrime o prendersi cura. La crisi che stiamo attraversando deve farci riflettere: il bene, l’interesse del singolo, se non si inserisce in un contesto di attenzione per il bene comune non solo non ha più senso ma rischia anche non essere sostenibile. Bisogna entrare in una logica di ‘economia di comunione’ in cui si condividono gioie e dolori. Così si costruiscono aziende sane. Ed è chiaro che quando un’azienda funziona bene la fortuna non c’entra. C’è sempre una mente illuminata dietro. Uomo o donna che sia.

Commento

  • La teoria dei giochi mostra che la fiducia e la reciprocità offrono i payoff migliori. Premessa indispensabile è che il gioco abbia alle spalle una storia comune e davanti a sé un futuro condiviso. Significativo è il “gioco dell’ultimatum” illustrato da Vernon Smith, La razionalità nell’economia, 2010. Già nel 1985, mi pare, Robert Axelrod aveva mostrato che è proprio la prospettiva di lungo termine a permettere l’insorgenza della cooperazione – e il payoff migliore -in un gioco competitivo per eccellenza, il dilemma del prigioniero. A breve termine è possibile solo la competizione, perché prevale la diffidenza reciproca. Insomma: cooperazione, fiducia, reciprocità portano senz’altro i risultati migliori, ma hanno come premessa indispensabile la solidità di una storia comune, anche nelle relazioni industriali (Gibbons)

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