Intervista a Chiara Lupi, la dirigente “disperata”

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di Norman di Lieto

1)      Dott.ssa Lupi, in Italia è davvero così complicato conciliare l’attività professionale con quella di mamma ?

Il problema della conciliazione rimanda a un equivoco di fondo, irrisolto, del nostro Paese. In Italia tutto ciò che riguarda i servizi all’infanzia viene considerato un aiuto per la donna che lavora. In realtà questi servizi non devono essere percepiti come aiuti alle donne ma alle famiglie, questo il problema. Perché la cura dei figli deve ricadere sotto la responsabilità delle famiglie, non solo delle madri. Mentre invece ricorre il pensiero che le madri vadano aiutate. Certo che hanno bisogno d’aiuto, ma è necessario cambiare logica: servono politiche che sostengano il nucleo familiare. Purtroppo nella nostra cultura è socialmente accettato che un uomo, che deve far carriera, non abbia orari mentre una donna, che non deve far carriera per forza, se ha una famiglia, si debba far carico del resto. Manca nel nostro Paese la cultura della condivisione delle responsabilità, per cui mentre una donna deve fare i salti mortali per recuperare magari il figlio all’asilo all’uomo tutti questi sacrifici vengono meno richiesti. Giusto sottolineare che io riporto la mia esperienza e quella delle mie coetanee quarantenni, mi auguro che nelle generazioni più giovani il tema della condivisione delle responsabilità sia più sentito. Altro aspetto che non facilita la conciliazione sono gli orari dei servizi. Gli asili, quando si riesce ad accedervi, chiudono a metà pomeriggio. Ecco che ai problemi organizzativi si aggiungono i problemi economici. Perché delegare la cura dei figli, costa.

2)      Dott.ssa Lupi, nel suo libro spesso si fanno dei raffronti con la realtà di altri paesi europei che sembrano lontani anni luce da noi, sono loro evoluti o siamo noi che siamo rimasti ancorati ad una tradizione che vuole la donna, “angelo del focolare”?

Altri paesi, anche geograficamente molto vicini a noi, comela Francia, hanno capito che rinunciare ad avere talenti femminili in azienda significa perdere valore. E hanno avviato politiche concrete di sostegno alla famiglia con il risultato di una forte crescita della natalità. Nel nostro Paese non sembra esserci alcuna attenzione al tema. Tanto che sono molte le donne che sacrificano la maternità per fare carriera, perché i modelli organizzativi non favoriscono la conciliazione. Siamo un paese in cui – parlo sempre per la mia generazione – le donne si sentono dire ‘ricordati che hai dei figli’, ‘non puoi arrivare a casa sempre così tardi’, come se la responsabilità ricadesse ancora e sempre sulle donne; I sensi di colpa che instilla la famiglia d’origine possono pesare negativamente. Attualmente la figura dell’angelo del focolare non è che sia anacronistica, semplicemente sono poche le famiglie che possono permettersi un unico reddito. Ecco che un’attenzione istituzionale verso problematiche legate al sostegno delle giovani famiglie diventa urgente. Certo che, finché saremo governati da ultrasettantenni l’attenzione a tematiche che riguardano i giovani saranno sempre in secondo piano.

3)      Secondo lei basterebbero misure legislative ad hoc per colmare il gap con gli altri paesi o è anche questione di tradizione e cultura differenti?

Come dicevo,  alla nostra tradizione il senso di colpa piace molto. Ma bisogna anche guardare la realtà. Dalle facoltà universitarie per tradizione feudi maschili, come ingegneria e architettura escono sempre più donne e sempre più preparate. Anche nelle nostre sale operatorie è vicino il sorpasso. Le donne ci sono e avranno un peso sempre maggiore. È questione di tempo. Quanto all’attenzione istituzionale al problema temo che le donne dovranno arrangiarsi ancora per un po’. Sappiamo bene che i posti negli asili nido non sono sufficienti, le scuole elementari non garantiscono più il tempo pieno. Uno scenario in cui, per ora, l’unica via d’uscita è l’investimento in aiuti.

4)      Nel suo libro ci sono diverse interviste e ci sono donne che come lei, ce l’hanno fatta.  Seppur con immensi sacrifici sono riuscite a non abbandonare la carriera dopo essere diventate mamme. Cosa si sente di dire a quelle donne che, sovente, scelgono una via a discapito dell’altra?

La mia opinione è che una donna dovrebbe guardarsi dentro e capire, davvero, cosa vuole. Se non vuole rinunciare al suo percorso professionale non c’è motivo per farlo. Certo, tutto questo, soprattutto nei primi anni di vita dei figli, ha un costo elevato. Perché, come dicevo, se non si hanno aiuti, a Milano la vita finisce alle 16 quando chiude l’asilo. E allora bisogna mettere in preventivo, per un certo numero di anni, di investire in una o più tate, se i figli sono più di uno. Tutto questo ha un costo in termini economici e implica anche molte rinunce. Un lavoro impegnativo e figli da seguire significa non avere tempo per sé. Ecco che la motivazione ad andare avanti deve essere forte, dettata da una grande passione per la propria professione. Ma se questa passione c’è, reprimerla può avere effetti devastanti e generare nel tempo una profonda insoddisfazione. E poi se abbiamo un lavoro che ci piace sapremo trasmettere ai nostri ragazzi il valore dell’impegno profuso in un progetto, il senso del sacrificio e dell’importanza di trarre soddisfazione dal nostro lavoro.  E sono valori importanti, che abbiamo il dovere di trasmettere loro. Che nessuna scuola oggi riesce a trasmettere

(pubblicato su comunicazionepervoi.com)

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